Il sole batte la terra. Caldi raggi sferzano l’ormai gialla campagna, i tetti ardono, le finestre cigolano mentre l’ombra cerca refrigerio. Le chiome argentee degli ulivi attendono un’alito di vento.
La polvere riposa.
I Ruderi di Poggioreale
Il cielo è limpido, la temperatura alta. L’auto romba allegra sulle strisce d’asfalto che da Palermo puntano verso la costa sud-ovest della Sicilia.
Attraversiamo l’entroterra, lo sguardo passa dalla strada a borghi solitari, da uliveti a pungenti fichi d’india.
Il fiume scuro d’asfalto ci porta li dove nel 1968 la terra ha tremato forte, e nelle notti di gennaio ha squarciato borghi interi.
Facciamo tappa a Poggioreale, o meglio: nella Poggioreale antica. Quella “moderna“, la “nuova” Poggioreale la sfioriamo di passaggio. L’occhio cade sul cemento, inevitabilmente.
Il Terremoto del Belice
Fa parte della storia, purtroppo e troppo spesso, dimenticata dell’Italia e del Mezzogiorno il lamento di dolore di intere cittadine. La terra ruggisce, trema, scuote il suo dorso duro, tenta di scrollarsi di dosso chi la abita, e nel suo moto di insofferenza strappa vite, vite su vite.
Qui, in valli silenziose, le grida di terrore hanno riempito una notte, quella tra il 14 ed il 15 gennaio 1968.
I primi segni della sua irrequietezza, la terra iniziò a darli intorno alle 13:30 del 14 gennaio. Scosse.
Tremano Poggioreale, Gibellina, Montevago, Salaparuta.
Alle 14:15 un altro colpo.
Alle 16:48 la terra urla. Decide di frustare ancora Poggioreale, Gibellina, Salaparuta, Montevago, Menfi, Partanna, Salemi, Santa Nifa, Vita e Santa Margherita di Belice.
Tutto tace, il terrore a fior di pelle. E poi la notte.
Una notte di paura. Alle ore 2:33 del 15 gennaio come un toro arrabbiato il suolo vibra violentissimo. Alle ore 3:01 un colpo ancora più forte.
Crolla tutto. Si spengono vite: 231 morti. Oltre 600 i feriti.
Altre scosse accendono la paura negli occhi delle persone, il rumore di calcinacci e pietre cadenti sono la colonna sonora che accompagna i lamenti.
I brividi poi…
I brividi di paura cercarono conforto nei soccorritori che, affannandosi, raggiunsero questi borghi distrutti. Avvicinandosi all’epicentro, tra Gibellina, Poggioreale, Salaparuta anche le strade sembrarono esser fuggite. Scomparse, risucchiate, distrutte.
Ore trascorsero, confusione, un senso di impotenza, di smarrimento invasero tutti. Poco pronti al peggio, mal coordinati, i soccorritori tardarono giorni a raggiungere i luoghi del sisma.
Si inizia a parlare di ricostruzione. A queste parole faranno poi seguito anche i fatti, fatti male probabilmente.
All’anno 2006 si segna sul calendario lo smantellamento delle ultime 250 case concesse a chi era rimasto senza casa. La ricostruzione dei paesi fu pensata e raccontata come un’occasione di rinascita, di sviluppo economico e lavorativo, oltre che sociale. Inutile dire che nulla di tutto ciò si è avuto. Anzi, spesso, come si può osservare anche in altri angoli d’Italia sfiorati da tragedie, il cerotto messo ha aperto profondissime ferite poi.
Furono spesi, per parlare solo di freddi numeri, oltre 6 miliardi di euro.
Gli occhi su Poggioreale
Quando giungiamo nei pressi di Poggioreale siamo subito colpiti dal paese nuovo. E’ tutto in cemento, una distesa di cemento. Ricostruito, o meglio costruito senza tener presente il passato, a qualche chilometro dalla sua storia, il borgo oggi è stranamente moderno. Di un moderno che non racconta nulla.
Superato il paese abitato, seguendo una strada stretta con l’asfalto sbiadito intravediamo il borgo antico. E’ quello che ben rappresenta il concetto di Borghi del Silenzio.
Solitario, circondato dai campi, il paese antico è una città fantasma.
Ci avviciniamo, lasciamo un’attimo l’auto e osserviamo da una prospettiva comoda la cittadina diroccata. Fa impressione il senso di smarrimento che provoca. Qualche falco ruota intorno alla città, il profumo di terra arsa anche.
Sulla destra qualche casa diroccata sta li, solitaria. Sulla sinistra il paese.
Quando raggiungiamo quello che, ufficialmente, sarebbe l’ingresso restiamo delusi. E’ interdetto l’ingresso. Il cancello sbarra la strada.
Negli spazi offerti dall’inferriata appoggiamo l’occhio, cerchiamo di rubare scorci.
Qualche foto. La delusione di non poter camminare nella storia martoriata della Sicilia dell’Ovest. Non c’è un ufficio informazioni, non c’è modo alcuno di visitare questo angolo italiano. Un peccato enorme, un’occasione persa. Neppure sprecata.
Restiamo attoniti ad osservarci intorno. Il terremoto c’è stato, ma è come se fosse ancora qui.
Il sole scotta. Torniamo in auto, puntiamo il sogni verso altre mete.
Breve viaggio nella storia
Poggioreale ha una sua storia da raccontare, anche se ormai di voci, in quelle antiche strade, non se ne sentono più.
Il nome, stando all’etimologia, si fa risalire ai termini “Podus Regalis” (Poggio del re). Le prime importanti testimonianze del borgo risalgono al 1642 e si parla di un possedimento agricolo, con annesso borgo, di proprietà del marchese di Gibellina che, l’anno successivo, assunse il titolo di Principe di Poggioreale.
Del passato della cittadina c’è davvero poco che arriva fino a noi, e tutta l’attenzione viene fagocitata dal terremoto del ’68 e dagli anni che fecero seguito.
Proprio il dramma scrive storie, non del borgo, ma di penne distanti chilometri e chilometri, imprimendole su pellicola.
Qui ha girato film il regista Giuseppe Tornatore (si ricordi Nuovo Cinema Paradiso, L’Uomo delle Stelle e Malena) ed il borgo è stato set per La Piovra e Cefalonia, così come La guerra di Cam di Laura Muscardin.